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Di fronte a lavori sempre più precari, ambienti poco stimolanti ed a scarse possibilità di crescita interna, in molti si chiedono se non sia meglio puntare su una propria attività autonoma, da freelance. D'altro canto, la pressione della crisi e del carico fiscale, può far vacillare la scelta di chi ha deciso di essere un libero professionista o un piccolo imprenditore.
In questo articolo vogliamo fornire degli spunti di riflessione ed alcuni strumenti pratici per scegliere la strada del dipendente piuttosto che quella del freelance o se passare da uno all’altro…
Gli esperti ed i futurologi ci confermano quello di cui ci eravamo già ampiamente accorti: il mercato del lavoro si sta rivoluzionando. Non esisterà più un "posto di lavoro" per tutta la vita e saranno sempre più rari i percorsi di carriera lineari, ossia di crescita verticale nel proprio ruolo. Saranno invece più frequenti i passaggi da un'azienda all’altra (e non per forza dello stesso settore) e tra una funzione aziendale all'altra. Le etichette dei “job title” saranno sempre meno precise e definite perché i confini tra un ruolo e l’altro si assottiglieranno sempre più, si lavorerà soprattutto per progetti e per obiettivi, collaborando con team multifunzionali.
Si prevede che aumenterà il numero di collaboratori esterni che lavoreranno per conto di un’azienda in modalità continuativa o, più frequentemente, “on demand”, ossia su richieste specifiche. Tenderà invece a diminuire il numero di freelance in monocommittenza (ossia con un unico cliente), che punteranno ad un ampliamento del portafoglio clienti e ad una differenziazione del tipo di servizi offerti.
Lavorare come dipendente è considerato lo "standard", profondamente legato al nostro retaggio storico e culturale. Se ci pensiamo, i nostri genitori, per la maggior parte, provengono da un lavoro "alle dipendenze" di privati o dello Stato. Dal punto di vista psicologico la scelta fa leva su due forti bisogni: quello di appartenenza e quello di sicurezza (secondo la teoria dello psicologo Abraham Maslow).
Il lavoro dipendente infatti (finora...) ha rappresentato la sicurezza. Lavorare per un’azienda significa avere un posto, una scrivania, un gruppo di lavoro che ci aspettano (nel bene e nel male) ogni mattina ed uno stipendio a fine mese. Su questo i dipendenti poggiano le loro possibilità di avere una famiglia, un mutuo, di pagare le bollette, di essere “tranquilli” e stabili. Lavorare in un’azienda è anche uno questione di status: il prestigio dell’azienda, dei prodotti o servizi che offre, si riflette su chi ne fa parte, in quanto può dire di aver contribuito a costruirlo.
Infine, soprattutto le aziende strutturate e internazionali possono offrire sostanziose opportunità di carriera e di crescita interna (anche se questo non è più così scontato perchè chiaramente dipende dalla congiuntura economica, dalle modalità di gestione delle risorse umane adottate, ecc.).
Nel momento in cui scegliamo di dipendere da qualcuno o da qualcosa, però, perdiamo "de facto" dei gradi di libertà. Ci dobbiamo adeguare alle condizioni che ci vengono imposte: timbrare il cartellino, rispettare gli orari, seguire le prescrizioni in merito al lavoro da fare, ai tempi e anche al modo in cui farlo. Questo, in molti casi, limita le possibilità di azione e di espressione. Sono rare le aziende che lasciano spazio all’iniziativa personale ed anzi stimolano la creatività del dipendente.
Non si ha la possibilità di scegliere né il capo né i colleghi e spesso il clima ed i rapporti che si instaurano all’interno dell’azienda condizionano fortemente la soddisfazione lavorativa.
Si rischia di avere un carico di lavoro molto elevato, restando fino a tardi la sera e danneggiando così fortemente la qualità della propria vita.
C’è inoltre il rischio di restare bloccati per molto tempo nella stessa posizione, senza possibilità di crescita.
Ma probabilmente il rischio maggiore è che proprio il luogo in cui abbiamo riposto le nostre sicurezze ci crolli addosso: ristrutturazioni aziendali, procedimenti di mobilità, cassa integrazione e licenziamenti sono ormai all’ordine del giorno sia nelle piccole che nelle grandi aziende.
Se l'attività autonoma dei liberi professionisti (quali medici, avvocati, architetti e psicologi, ecc.) è socialmente riconosciuta e accettata, la figura del freelance, per quanto analoga, è associata a lavori "creativi" o consulenziali, instabili per definizione, e sempre in movimento. Dal punto di vista psicologico, la scelta fa leva su due bisogni diversi dal precedente, ossia quelli di indipendenza e di realizzazione personale.
Il freelance si considera "artefice del proprio successo". Definisce autonomamente gli scopi, il target di clienti e le modalità di svolgimento della propria attività. Facendo leva sulle proprie competenze, crea prodotti e servizi su misura. Grazie alle nuove tecnologie è possibile lavorare da remoto da qualunque parte nel mondo (basta una connessione internet stabile) e gestire in modo flessibile i propri tempi.
Il freelance è capo di se stesso e non “prende ordini” da nessuno, ma deve chiaramente rendere conto al cliente e rispondere alle sue esigenze. Infatti per lui non contano solo le capacità tecniche ma anche (e soprattutto) quelle commerciali.
D'altro canto, come dicevamo, il freelance è precario per definizione. In un lavoro indipendente non c’è nulla di garantito, bisogna guadagnarsi “il pane” tutti i giorni: trovare nuovi clienti e mantenere quelli acquisiti, produrre nuove idee, reinventandosi continuamente.
C’è la difficoltà di differenziarsi rispetto ad una concorrenza sempre più agguerrita, rischiando di incastrarsi in una guerra al ribasso dei prezzi e di diventare “dipendenti” dai propri clienti (che spesso latitano nei pagamenti).
Sono necessarie solide capacità di gestione e organizzazione delle attività: non essendoci uno spazio nè un orario definito di lavoro, il rischio che si corre è quello che gli impegni lavorativi vadano ad assorbire anche il tempo per sé e per le relazioni.
Infine, le tre note dolenti che valgono per tutte le partite IVA così come per gli imprenditori: tasse, banche e burocrazia. Per queste, bisogna dotarsi di un bravo commercialista e tanta pazienza!
Entrambe le scelte, come abbiamo visto, hanno i loro pro ed i loro contro.
Il criterio non deve essere la via più facile ma quella che ci rende più felici, quella che rispecchia ciò che è davvero più importante per noi: è la nostra libertà? O la tranquillità? L’appartenenza ad un gruppo o l’indipendenza? Bisogna porsi queste domande con serenità, non ci sono risposte giuste o sbagliate, né tantomeno decisioni irrevocabili, ma dobbiamo essere consapevoli che ciò che scegliamo, giorno dopo giorno, plasma il nostro futuro.
Ecco alcuni esercizi utili che possono aiutarci a capire cosa desideriamo veramente:
Sia che abbiamo scelto di intraprendere la strada del freelance, sia che preferiamo la ricerca di un lavoro dipendente, sia che siamo ancora indecisi, è fondamentale in ogni caso:
Ma non solo, è importante sempre lavorare su sé stessi, per crescere come persone oltre che come professionisti!
Siti: Essere Freelance - Vita da Freelance
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Di fronte a lavori sempre più precari, ambienti poco stimolanti ed a scarse possibilità di crescita interna, in molti si chiedono se non sia meglio puntare su una propria attività autonoma, da freelance. D'altro canto, la pressione della crisi e del carico fiscale, può far vacillare la scelta di chi ha deciso di essere un libero professionista o un piccolo imprenditore.
In questo articolo vogliamo fornire degli spunti di riflessione ed alcuni strumenti pratici per scegliere la strada del dipendente piuttosto che quella del freelance o se passare da uno all’altro…
Gli esperti ed i futurologi ci confermano quello di cui ci eravamo già ampiamente accorti: il mercato del lavoro si sta rivoluzionando. Non esisterà più un "posto di lavoro" per tutta la vita e saranno sempre più rari i percorsi di carriera lineari, ossia di crescita verticale nel proprio ruolo. Saranno invece più frequenti i passaggi da un'azienda all’altra (e non per forza dello stesso settore) e tra una funzione aziendale all'altra. Le etichette dei “job title” saranno sempre meno precise e definite perché i confini tra un ruolo e l’altro si assottiglieranno sempre più, si lavorerà soprattutto per progetti e per obiettivi, collaborando con team multifunzionali.
Si prevede che aumenterà il numero di collaboratori esterni che lavoreranno per conto di un’azienda in modalità continuativa o, più frequentemente, “on demand”, ossia su richieste specifiche. Tenderà invece a diminuire il numero di freelance in monocommittenza (ossia con un unico cliente), che punteranno ad un ampliamento del portafoglio clienti e ad una differenziazione del tipo di servizi offerti.
Lavorare come dipendente è considerato lo "standard", profondamente legato al nostro retaggio storico e culturale. Se ci pensiamo, i nostri genitori, per la maggior parte, provengono da un lavoro "alle dipendenze" di privati o dello Stato. Dal punto di vista psicologico la scelta fa leva su due forti bisogni: quello di appartenenza e quello di sicurezza (secondo la teoria dello psicologo Abraham Maslow).
Il lavoro dipendente infatti (finora...) ha rappresentato la sicurezza. Lavorare per un’azienda significa avere un posto, una scrivania, un gruppo di lavoro che ci aspettano (nel bene e nel male) ogni mattina ed uno stipendio a fine mese. Su questo i dipendenti poggiano le loro possibilità di avere una famiglia, un mutuo, di pagare le bollette, di essere “tranquilli” e stabili. Lavorare in un’azienda è anche uno questione di status: il prestigio dell’azienda, dei prodotti o servizi che offre, si riflette su chi ne fa parte, in quanto può dire di aver contribuito a costruirlo.
Infine, soprattutto le aziende strutturate e internazionali possono offrire sostanziose opportunità di carriera e di crescita interna (anche se questo non è più così scontato perchè chiaramente dipende dalla congiuntura economica, dalle modalità di gestione delle risorse umane adottate, ecc.).
Nel momento in cui scegliamo di dipendere da qualcuno o da qualcosa, però, perdiamo "de facto" dei gradi di libertà. Ci dobbiamo adeguare alle condizioni che ci vengono imposte: timbrare il cartellino, rispettare gli orari, seguire le prescrizioni in merito al lavoro da fare, ai tempi e anche al modo in cui farlo. Questo, in molti casi, limita le possibilità di azione e di espressione. Sono rare le aziende che lasciano spazio all’iniziativa personale ed anzi stimolano la creatività del dipendente.
Non si ha la possibilità di scegliere né il capo né i colleghi e spesso il clima ed i rapporti che si instaurano all’interno dell’azienda condizionano fortemente la soddisfazione lavorativa.
Si rischia di avere un carico di lavoro molto elevato, restando fino a tardi la sera e danneggiando così fortemente la qualità della propria vita.
C’è inoltre il rischio di restare bloccati per molto tempo nella stessa posizione, senza possibilità di crescita.
Ma probabilmente il rischio maggiore è che proprio il luogo in cui abbiamo riposto le nostre sicurezze ci crolli addosso: ristrutturazioni aziendali, procedimenti di mobilità, cassa integrazione e licenziamenti sono ormai all’ordine del giorno sia nelle piccole che nelle grandi aziende.
Se l'attività autonoma dei liberi professionisti (quali medici, avvocati, architetti e psicologi, ecc.) è socialmente riconosciuta e accettata, la figura del freelance, per quanto analoga, è associata a lavori "creativi" o consulenziali, instabili per definizione, e sempre in movimento. Dal punto di vista psicologico, la scelta fa leva su due bisogni diversi dal precedente, ossia quelli di indipendenza e di realizzazione personale.
Il freelance si considera "artefice del proprio successo". Definisce autonomamente gli scopi, il target di clienti e le modalità di svolgimento della propria attività. Facendo leva sulle proprie competenze, crea prodotti e servizi su misura. Grazie alle nuove tecnologie è possibile lavorare da remoto da qualunque parte nel mondo (basta una connessione internet stabile) e gestire in modo flessibile i propri tempi.
Il freelance è capo di se stesso e non “prende ordini” da nessuno, ma deve chiaramente rendere conto al cliente e rispondere alle sue esigenze. Infatti per lui non contano solo le capacità tecniche ma anche (e soprattutto) quelle commerciali.
D'altro canto, come dicevamo, il freelance è precario per definizione. In un lavoro indipendente non c’è nulla di garantito, bisogna guadagnarsi “il pane” tutti i giorni: trovare nuovi clienti e mantenere quelli acquisiti, produrre nuove idee, reinventandosi continuamente.
C’è la difficoltà di differenziarsi rispetto ad una concorrenza sempre più agguerrita, rischiando di incastrarsi in una guerra al ribasso dei prezzi e di diventare “dipendenti” dai propri clienti (che spesso latitano nei pagamenti).
Sono necessarie solide capacità di gestione e organizzazione delle attività: non essendoci uno spazio nè un orario definito di lavoro, il rischio che si corre è quello che gli impegni lavorativi vadano ad assorbire anche il tempo per sé e per le relazioni.
Infine, le tre note dolenti che valgono per tutte le partite IVA così come per gli imprenditori: tasse, banche e burocrazia. Per queste, bisogna dotarsi di un bravo commercialista e tanta pazienza!
Entrambe le scelte, come abbiamo visto, hanno i loro pro ed i loro contro.
Il criterio non deve essere la via più facile ma quella che ci rende più felici, quella che rispecchia ciò che è davvero più importante per noi: è la nostra libertà? O la tranquillità? L’appartenenza ad un gruppo o l’indipendenza? Bisogna porsi queste domande con serenità, non ci sono risposte giuste o sbagliate, né tantomeno decisioni irrevocabili, ma dobbiamo essere consapevoli che ciò che scegliamo, giorno dopo giorno, plasma il nostro futuro.
Ecco alcuni esercizi utili che possono aiutarci a capire cosa desideriamo veramente:
Sia che abbiamo scelto di intraprendere la strada del freelance, sia che preferiamo la ricerca di un lavoro dipendente, sia che siamo ancora indecisi, è fondamentale in ogni caso:
Ma non solo, è importante sempre lavorare su sé stessi, per crescere come persone oltre che come professionisti!
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