I ricercatori del “British Institute of Work, Health and Organisations” hanno pubblicato un report sullo stress correlato al lavoro nei cinquantenni. Tra le diverse fasce d’età, quella fra i 50 e i 55 anni risulta la più colpita.
Pare che questo livello di stress sia tale da poter persistere e far sentire i suoi effetti anche dopo l’entrata in pensione.
Un altro dato rilevante è che questa sarebbe la più importante causa di assenze dal posto di lavoro, superiore ad ogni altra, malattie organiche comprese.
Risulta ovvio che in una situazione in cui l’età lavorativa diventa sempre più alta e la pensione un orizzonte sempre più lontano non possiamo ignorare questi risultati che tuttavia si limitano ad essere puramente descrittivi.
Secondo Ballarini, le ragioni possono essere diverse. In primis l’angoscia correlata alla paura di perdere il posto, associata alla consapevolezza della difficoltà del rientro.
Nel momento in cui un soggetto potrebbe capitalizzare sulla sua esperienza, in cui studio e pratica costituiscono un solido mix capace di dare solidità, la paura di essere surclassati dai più giovani fa tremare il terreno…sotto la scrivania!
Può esistere anche un secondo fattore, che Ballarini definisce “plafonamento“. Può accadere che superati i cinquantanni sia ormai chiaro che le possibilità di carriera o non ci sono mai state o si sono bruciate. Non resta quindi che immaginarsi altri dieci, quindici anni nelle stesse esatte condizioni, allo stesso posto con gli stessi compiti. Non si può certo parlare di prospettive rosee…la motivazione può scendere e il morale precipitare.
Ma quali le soluzioni possibili, allora? I ricercatori di Nottingham fanno delle proposte interessanti:
- permettere ai dipendenti più avanti con gli anni una maggior possibilità di controllo sui loro compiti,
- fornire un riconoscimento più evidente al contributo che danno
- aumentare la flessibilità del loro lavoro.
Sono tutte buone soluzioni che tuttavia intervengono solo dall’esterno.
Occorre anche un passo di pensiero da parte del soggetto. Pensare “non sono finito”, questo il primo passo da fare.
E da questo passo partire per generare grinta nell’agire e potenza nel far valere la forza della propria esperienza. Accompagnate dalla certezza che se dovesse poi accadere il temuto esistono comunque possibilità di rimettersi in gioco, magari ripensando il proprio ruolo e profilo professionale.
Magari valutare la possibilità di fare un percorso di coaching e di consulenza di carriera per scoprire le proprie competenze e come poterle valorizzare….ma anche come ri-scoprire la bellezza della propria sfera personale e relazionale, cercando il cosiddetto work-life balance, l’equilibrio sano e benefico tra il lavoro e la vita privata.
Tratto dall’articolo di Luigi Ballerini su Job24
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